Salini Impregilo cambia nome «Per creare un polo nazionale»

Intervistato dal Corriere della Sera, Pietro Salini racconta la visione strategica sottostante il Progetto Italia, il piano industriale volto a dar vita a un gigante nazionale che possa supportare la ripresa del settore in Italia ed essere più competitivo sui mercati internazionali.

Per dare corpo a questa realtà, che creerà valore non solo per il Gruppo, ma anche per il paese, Salini Impregilo è disposta a rinunciare al proprio naming e a sposarne uno condiviso con tutti gli attori che credono in questa visione, sia imprenditoriali che istituzionali.

Progetto Italia è una operazione industriale di sistema e di lungo periodo che mira a riunire sotto un’unica realtà i maggiori player italiani del settore delle infrastrutture per garantire la ripresa in Italia, e con essa l’occupazione di 70.000 persone nel breve termine in italia, creando 400.000 posti di lavoro nei prossimi anni, spingendo il paese a riattivare cantieri da 36 miliardi di euro attualmente bloccati su 14 regioni e contribuire al PIL italiano con un’ulteriore spinta stimata intorno al 0,3%.

Il nuovo player, grazie alla messa in comune di specializzazioni verticali di settore, potra essere piu competitivo sui mercati internazionali, raggiungendo dimensioni allineate ai competitor e tali da poter cogliere le migliori opportunità sui mercati globali.

Il nuovo soggetto industriale mira infatti a raggiungere un portafoglio ordini di oltre € 60 miliardi di euro e circa € 12-14 miliardi di fatturato.

L’intervista del Corriere della Sera

Salini Impregilo cambierà nome. Stiamo lavorando con i creativi per rappresentare l’idea di un gruppo internazionale con ambizioni globali frutto di un’orchestra di competenze. Per costruirlo, con il supporto delle banche e di investitori istituzionali, la famiglia Salini è pronta a diluirsi sotto la quota di maggioranza, pur restando azionista di controllo. Quel che conta è l’operazione per il Paese mettendo in secondo piano l’ego di noi imprenditori per i quali fa premio spesso la personalità rispetto al progetto». Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo, è l’ultimo interprete di una storia industriale fatta per aggregazioni. I due nomi della società di costruzioni rappresentano proprio questo. Quella fusione, con senno di adesso, rappresentava il primo tassello per la costituzione di un general contractor di dimensioni rilevanti, che ora mira a un portafoglio ordini di 60 miliardi, con commesse in tutto il mondo.

Salini Impregilo cambia nome  «Per creare un polo nazionale»

L’impostazione è chiara, però bisogna sciogliere alcuni nodi. Primo: quanto capitale servirà per questo nuovo soggetto? Diverse fonti parlano di 600 milioni, di cui 300 in carico a Cassa depositi, che gestisce la raccolta postale degli italiani.

«Le cifre più o meno potrebbero essere queste, ma mi faccia dire che stiamo costruendo un sogno proprio in un momento in cui il Paese sembra appiattito sul presente. Si tratta di un progetto industriale che mira a garantire un futuro ad oltre 30 mila persone che ora rischiano di perdere il lavoro. Il comparto delle costruzioni è in grossa difficoltà, vogliamo farlo ripartire creando occupazione e sviluppo. Non possiamo essere gli unici soggetti a poterlo fare, abbiamo bisogno del supporto di tutti soggetti finanziari e istituzionali. Vogliamo costruire un gruppo affidabile, con un rating quasi investment grade, portare nuove specialità interne all’azienda arricchendo la gamma di competenze. Dalle carpenterie metalliche alle fondazioni speciali fino ai montaggi elettromeccanici».

Nel perimetro di questo nuovo gruppo rientreranno anche Trevi Costruzioni, Condotte, Grandi Lavori Fincosit, Cmc? E di aziende in bonis come Vianini e Pizzarotti?

«Non mi faccia ancora dire nomi. Devono ancora deliberare tutti gli organi competenti, ma i negoziati sono a buon punto e stiamo lavorando sui dettagli. Ci tengo a dire che questa non è un’operazione di salvataggio di imprese decotte ma un’operazione d’intervento tra imprese e istituzioni finanziarie a supporto di un progetto per il sistema-Paese. I nostri interlocutori stanno visionando in questi giorni il piano industriale della risultante».

Gli istituti di credito sono allineati? Al momento ancora non hanno deliberato l’operazione. Interverranno se non sarà il mercato a sottoscrivere l’aumento di capitale?

«C’è tutto il loro supporto. Un afflato verso questo progetto. D’altronde si tratta anche di concentrare le linee di credito per sviluppare le infrastrutture che servono al Paese. Tenga conto che ogni anno noi prendiamo circa 6,6 miliardi di commesse, di cui 2 miliardi garantiti dalle banche. Hanno l’interesse a costruire un soggetto patrimonialmente solido con una struttura managerializzata anche per far ripartire tutti i cantieri al momento fermi».

Quanti sono? Ha una contabilità su questo? Pensa che il nuovo soggetto possa riavviarne alcuni subito?

«Almeno 35 miliardi di opere pubbliche sono ferme anche per la difficoltà dei soggetti industriali. Ci sono oltre 30 mila persone direttamente coinvolte, senza contare le imprese fornitrici in crisi per i ritardi nei pagamenti».

Chi guiderà il nuovo veicolo? Lei? A Cdp spetterà la scelta del presidente? Si allargherà anche il consiglio di amministrazione?

«Mi piacerebbe essere il traghettatore di questo progetto, ho 60 anni e le forze per farlo, ma non è una questione di poltrone. La società diventerà a tutti gli effetti una public company con le migliori pratiche di corporate governance. La questione che conta, al netto dei pesi in consiglio, è quella di voler riattivare 400-500 mila posti di lavoro, che non si creano per decreto. E investire sulla sicurezza, su cui non si possono fare sconti, coinvolgendo i sindacati anche sulla formazione dei giovani attraverso master e percorsi universitari ad hoc».

Non crede che il nuovo soggetto possa strozzare tutta la filiera di pmi? D’altronde avrà un potere negoziale enorme.

«Voglio rassicurare tutti su questo. Stiamo costruendo con l’associazione dei costruttori un protocollo di filiera dando una serie di garanzie ai nostri partner: dai criteri di qualificazione per l’accesso alle gare alla contrattualistica».

Non sembra che la politica stia facendo il suo: lo “Sblocca Cantieri” sembra più un “Blocca Cantieri” e sulla riformulazione del codice degli appalti sono di più i veti incrociati che le soluzioni.

«I vari governi che si sono susseguiti hanno modificato una decina di volte il Codice concepito nel periodo post-unificazione ed ora è un coacervo di norme di cui neanche più gli specialisti ci capiscono alcunché. Speriamo che nel processo di conversione in Parlamento molte di queste storture vengano eliminate».

Non è preoccupato per la tenuta del governo dopo l’esito delle Europee?

«Questa operazione ha una connotazione industriale e di mercato. Dobbiamo riattivare cantieri bloccati per 36 miliardi di euro, in 14 regioni, e dare un futuro a migliaia di persone e alle loro famiglie».

Via: Corriere della Sera

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